l'incontro con se stessi e con l'altro: il viaggio continua


Il racconto del viaggio verso l’Alaska di Chris McCandless - il protagonista del romanzo, tradotto poi in film, Into the Wild - si inserisce nel filone del genere on the road, in cui il viaggio è metafora della vita ma soprattutto di un percorso interiore alla scoperta di se stessi.

Chris
, come nel Walden di Thoreau, sceglie di vivere nei boschi “per non scoprire in punto di morte di non aver mai vissuto”. E non importa se il luogo della sua rinascita coincide con quello della morte: in poche settimane, Chris "Alexander Supertramp" si spinge oltre il limite, fino a raggiungere l'infinito, per ritrovare se stesso, e un rapporto più intimo e autentico con la natura, con la terra e gli uomini che la abitano, abbandonando le regole del conformismo e le imposizioni di una società civile che non condivide e che disprezza, e liberandosi infine della rabbia e del rancore attraverso il perdono e la consapevolezza. E mentre Chris, sebbene tragicamente e forse con l'ingenuità dell'incoscienza ma con la determinazione ribelle e piena di entusiasmo della gioventù, conquista a suo modo un traguardo personale importante, molti altri continuano a restare fermi, magari tutta una vita, al sicuro dai rischi che la ricerca di sé comporta, ma con uno struggente desiderio di realizzazione ma soprattutto di libertà e di indipendenza. Parole chiave che ricorrono come una sorta di mantra, ma che in realtà sono solo una delle due facce di quella medaglia affascinante e sconosciuta che è la nostra vita.

L’altra faccia è la relazione, il legame. Che attrae e spaventa nello stesso tempo perché prevede la perdita di una parte di noi, e della nostra libertà e autonomia. Ma senza una faccia non può esistere l’altra, come non c’è luce senza oscurità, verità senza dubbio. Happiness only real when shared? La felicità - come scrive il protagonista di Into the Wild - diventa tangibile e reale solo se condivisa? oppure è qualcosa che nasce dentro di noi, indipendentemente dai fatti della vita e dalla presenza degli altri? Credo si possa rispondere in maniera affermativa ad entrambe le domande perché la vita, paradossalmente contraddittoria, accoglie ed integra gli opposti in un equilibrio costantemente dinamico e mutevole, in cui ogni cosa si trasforma nel suo contrario per poi tornare ad essere se stessa.

Anche incontrare noi stessi e incontrare l’altro sono facce apparentemente opposte della stessa medaglia. Come scrive Muriel Barbery, non vediamo mai al di là delle nostre certezze e, cosa ancora più grave, abbiamo rinunciato all’incontro, non facciamo che incontrare noi stessi in questi specchi perenni senza nemmeno riconoscerci. Se ci accorgessimo, se prendessimo coscienza del fatto che nell’altro guardiamo solo noi stessi, che siamo soli nel deserto, potremmo impazzire. […] Io invece supplico il destino di darmi la possibilità di vedere al di là di me stessa e di incontrare qualcuno. Ecco sopraggiungere allora il trionfo dell’individualismo, dell’affermazione di sé e della propria volontà, talora esasperati, come spesso nelle nostre società contemporanee, in un narcisismo ipertrofico e autoreferenziale che si ripiega su se stesso alla ricerca soltanto del proprio benessere personale, disinteressato alla comunicazione autentica con l’altro da sé, o incapace di stabilire relazioni significative con gli altri. Ne consegue un senso disperato di frammentazione e di isolamento. Un vuoto emotivo, una sorta di trama non tessuta. Incontrare l’altro significa infatti esporsi al rischio della diversità. Ci mette di fronte a noi stessi, al nostro limite, alla nostra differenza ma anche alla nostra unicità. Ci costringe a trovare ogni volta un ponte, un collegamento, a cercare ciò che è comune per arrivare a scoprire e affermare la diversità, ci stimola a costruire il linguaggio e le regole dello scambio. 

L’incontro è un’esperienza che può anche fallire e l’alterità diventare un ostacolo insormontabile. Da una parte, possiamo perderci e fonderci con l’altro. L’incontro diventa così perdita dei confini, invasione del nostro territorio da parte delle mille differenze che ci circondano. Siamo uno, nessuno e centomila, riconosciamo negli altri infiniti aspetti che ci appartengono, o che nascondiamo a noi stessi. Tutto e il contrario di tutto ci attrae, ci appartiene, ci seduce. Oppure, dall’altra parte, possiamo restare chiusi nella nostra differenza, incapaci di correre il rischio di abbandonarci. Perché incontrare un altro significa sempre anche perdere qualcosa di noi e della nostra unicità, per muoverci su un terreno nuovo, sconosciuto, che ci fa scoprire ciò che ci manca o che potremmo essere. Gli altri sono per noi una possibilità di conoscenza, ma anche un’esperienza di perdita. Mentre il nostro desiderio sarebbe di affidarci completamente, di essere interamente compresi dagli altri, constatiamo con amarezza che qualcosa di noi resta sempre fuori, che la comprensione da parte degli altri, e spesso anche da parte di noi stessi, non è mai completa. E dal canto nostro, non riusciremo mai a sentirci del tutto a casa nel territorio di un altro. Così come talora ci sentiamo estranei persino a noi stessi.

La fatica e la gioia dell’incontro stanno dunque in un difficile equilibrio. Una sorta di swing, di oscillazione continua tra avvicinamento e allontanamento, tra perdita e consapevolezza di sé, che rispecchiano il ritmo naturale delle cose, della vita. La sfida dell’incontro con l’altro e con la sua diversità sta nella capacità di assumere il punto di vista dell’altro senza perdersi, senza perdere il contatto con noi stessi, attraversando quel vuoto che ci separa dall’altro restando comunque ancorati a noi stessi. Cercando di accogliere e comprendere l’altro, in realtà facciamo amicizia con noi stessi. E ne usciamo arricchiti.

L’incontro è la possibilità di accostare due regioni di significato, due campi di energia a frequenza diversa e di farli vibrare insieme. L’incontro è em_patia, sim_patia, com_passione: è sentire_con_un_altro. È la possibilità di scoprire che il senso non ci appartiene del tutto e che ci è dato solo nell’incontro. Perché, come scriveva il poeta inglese John Donne, nessun uomo è un’isola.
E l’incontro più significativo nella vita di ciascuno - quello con la persona amata - dovrebbe rivelarsi come l'incontro che permette, più di ogni altro, ad entrambe le alterità, di esprimersi e di completarsi a vicenda. Perché l’unione tra due persone è, come scrive Muriel Barbery, “un fuori dal tempo nel tempo”, “un incantevole abbandono, possibile solo in due” e “la quiete che avvertiamo quando siamo soli, la sicurezza di noi stessi nella serenità della solitudine non sono niente in confronto al sapersi abbandonare, al saper aspettare e al saper ascoltare che si vivono con l’altro, in una complice compagnia.

- E cosa c’è di bello nella coppia, scusa?
- La complicità, il senso di appartenenza. A me, per esempio, piace conoscere una persona a memoria.
- Come ti piace conoscere una persona a memoria? e la routine? la monotonia? che cos’hanno di bello?
- No, non parlo di routine o monotonia, ma di sapere a memoria una persona. Non so come spiegartelo, è come quando studi le poesie a scuola, in quel senso intendo a memoria.
- Questa non l’ho capita.
- Ma sì dai, come una poesia. Sai come si dice in inglese studiare a memoria? By heart, col cuore.
- Anche in francese si dice par coeur...
- Ecco, in questo senso intendo. Conoscere una persona by heart, a memoria, significa, come quando ripeti una poesia, prendere anche un po’ di quel ritmo che le appartiene. Una poesia, come una persona, ha dei tempi suoi. Per cui conoscere una persona a memoria significa sincronizzare i battiti del proprio cuore con i suoi, farsi penetrare dal suo ritmo. Ecco, questo mi piace. Mi piace stare con una persona intimamente perché vuol dire correre il rischio di diventare leggermente diversi da se stessi. Alterarsi un po’. Perché non è essere se stessi che mi affascina in un rapporto a due, ma avere il coraggio di essere anche altro da sé. Che poi è quel te stesso che non conoscerai mai. A me piace amare una persona e conoscerla a memoria come una poesia, perché come una poesia non la si può comprendere mai fino in fondo. Infatti ho capito che amando non conoscerai altro che te stesso. Il massimo che puoi capire dell’altro è il massimo che puoi capire di te stesso. Per questo entrare intimamente in relazione con una persona è importante, perché diventa un viaggio conoscitivo esistenziale. 
(F. Volo)