Io sono vivo e non concludo. La vita non conclude.

Io sono vivo e non concludo. La vita non conclude. E non sa di nomi, la vita. Quest’albero, respiro trèmulo di foglie nuove. Sono quest’albero. Albero, nuvola; domani libro o vento: il libro che leggo, il vento che bevo. Tutto fuori, vagabondo. 
[…] E l’aria è nuova. E tutto, attimo per attimo, è com’è, che s’avviva per apparire. Volto subito gli occhi per non vedere più nulla fermarsi nella sua apparenza e morire. Così soltanto io posso vivere, ormai. Rinascere attimo per attimo. Impedire che il pensiero si metta in me di nuovo a lavorare, e dentro mi rifaccia il vuoto delle vane costruzioni.
[…] perché muoio ogni attimo, io, e rinasco nuovo e senza ricordi: vivo e intero, non più in me, ma in ogni cosa fuori.
Con queste parole Luigi Pirandello concludeva la sua opera forse più intensa ed emblematica "Uno, nessuno e centomila" intitolando questo suo ultimo capitolo "Non conclude" per ricollegarsi a un leitmotiv che si ripresenta più volte nella sue opere, e il cui senso più profondo lo si ritrova spiegato dall'autore stesso in questo suo saggio del 1909:  

Concludere! Tra tutti i bisogni che premono e affliggono l'umanità questo è senza dubbio il più triste e il più vano.
Negli affari, in ogni impresa, piccola o grande che sia, in politica, nelle scienze, nelle arti, nell'amore, nell'odio, in tutte le passioni onde l'uomo è agitato, e insomma in ogni cosa, egli d'ora in ora vuol concludere, deve concludere per forza, non si dà requie se non conclude, o se almeno non crede d'aver concluso.
Che cosa? Nulla. Se n'accorge sempre poco dopo. 
[...]
- Che ho concluso? - si domanda allora l'uomo.  
Ma il riconoscimento più forte di non aver concluso nulla avviene quando, astraendoci dalle contingenze effimere, dalle brighe quotidiane, dalle passioni, dai desideri, dai doveri che ci siamo imposti, dalle abitudini che ci siamo tracciate, abbattiamo i limiti illusorii della nostra coscienza presente, allarghiamo i confini della nostra abituale visione della vita, ci solleviamo spassionati a contemplare e a considerare, da una altezza tragica e solenne, la natura. 
È il riconoscimento dei vecchi, che appunto al grembo eterno della natura si riaccostano. E da questo riaccostarsi alla natura deriva il riconoscimento. 
Perché la natura, nella sua eternità, non conclude. E noi che siamo in lei, che siamo lei stessa, ma che per alcun tempo ci siamo visti e considerati come parti per noi medesimi staccate e distinte, quando s'approssima il momento di rientrare e di perderci in essa, nella sua eternità, riconosciamo vana, illusoria, arbitraria ogni conclusione nostra, riconosciamo che veramente non concludiamo nulla. Rimane eterna dopo ciascuno di noi la natura: eterna appunto perché non conclude. 
La vita è flusso continuo che noi cerchiamo d'arrestare, di fissare in forme stabili e determinate, dentro e fuori di noi, perché noi stessi già siamo forme fissate, forme che si muovono in mezzo ad altre immobili, e che però possono seguire il flusso della vita fino a tanto che, irrigidendosi man mano, il movimento, già a poco a poco rallentato, non cessi del tutto. E le forme in cui cerchiamo d'arrestare, di fissare in noi questo flusso continuo, sono i concetti, sono gl'ideali a cui vorremmo serbarci coerenti e fedeli, tutte le finzioni che ci creiamo, le condizioni, lo stato in cui tendiamo a stabilirci. Ma dentro di noi, in ciò che noi comunemente chiamiamo anima e che è la vita in noi, il flusso continua, indistinto, sotto gli argini, oltre i limiti che noi imponiamo, per comporci una coscienza, per costruirci una personalità. E in certi momenti tempestosi, investite dal flusso, tutte quelle nostre forme fittizie crollano miseramente; e anche quello che non scorre sotto gli argini e oltre i limiti, ma che si scopre a noi distinto e che noi abbiamo con cura incanalato nei nostri affetti, nei doveri che ci siamo imposti, nelle abitudini che ci siamo tracciate, in certi momenti di piena, straripa e sconvolge tutto.  
Addio, allora, conclusioni! 
Io odio a morte tutti coloro che si son composti e quasi automatizzati in un dato numero di pensieri e di movimenti, paghi, tranquilli e sicuri d'aver capito il congegno dell’universo, di aver trovato la chiave per caricarne o scaricarne le molle, per regolarne il registro. Io li chiamo conclusioni ambulanti. Vogliono vedere in tutto, trarre da tutto una conclusione, dalla storia antica e moderna, da ogni avvenimento, da ogni piccolo incidente. Amo invece ed ammiro le anime sconclusionate, irrequiete, quasi in uno stato di fusione continua, che sdegnano di rapprendersi, di irrigidirsi in questa o in quella forma determinata.